TRAPANI – Blitz della Polizia di Stato alle prime luci dell’alba volto al contrasto della criminalità organizzata nella provincia di Trapani e in quella di Caserta. La Squadra Mobile di Trapani, su delega della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, ha eseguito numerose perquisizioni e arresti nei confronti dei favoreggiatori di Matteo Messina Denaro.
ARRESTI E INDAGATI. In manette sono finiti Giuseppe Calcagno, 46 anni, di Campobello di Mazara, e Marco Manzo, 55 anni, pregiudicato, di Campobello di Mazara, indagati per associazione di tipo mafioso ed estorsione.
Quindici gli indagati a vario titolo per associazione mafiosa, estorsione, detenzione di armi e favoreggiamento della latitanza del boss mafioso. Eseguite perquisizioni a Marsala, Mazara del Vallo e Castelvetrano. Perquisita anche l’abitazione di Castelvetrano, residenza anagrafica del latitante Messina Denaro.
L’operazione è stata condotta dagli uomini della Squadra Mobile di Trapani con l’ausilio degli uomini della Questura, dei commissariati della provincia e dei Reparti Prevenzione Crimine della Sicilia e della Calabria, e l’impiego di unità cinofile e di elicottero del Reparto Volo di Palermo. Sono stati impiegati 90 uomini della Polizia.
La Squadra Mobile di Caserta, con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, ha eseguito numerosi arresti nei confronti degli esponenti del sodalizio criminale con a capo un ex cutoliano, attuale reggente del clan dei Casalesi nell’agro Teano. Tra gli arrestati anche il referente di zona del federato clan “Papa”.
L’indagine, denominata “Ermes Fase 3”, ha rivelato che i 15 indagati, membri o contigui dei mandamenti mafiosi di Mazara del Vallo e di Castelvetrano, si sono adoperati per garantirne gli interessi economici, il controllo del territorio e delle attività produttive da parte dell’associazione e per aver favorito, in passato, la comunicazione riservata con il latitante Matteo Messina Denaro.
I PIZZINI. Le attività investigative hanno fatto luce sugli interessi economici e sui rapporti fra i sodali del mandamento mafioso di Mazara del Vallo, retto da Vito Gondola, morto nel 2017, e sui suoi rapporti con altri appartenenti alla famiglia mafiosa di Marsala, di Campobello di Mazara e di Castelvetrano.
Nel corso di incontri riservati e attraverso lo scambio di “pizzini” si decideva il compimento di estorsioni nella compravendita di fondi agricoli e nell’esecuzione di lavori pubblici. L’indagine ha dimostrato anche l’intestazione fittizia di beni riconducibili a mafiosi e l’intervento dell’organizzazione per risolvere partite di debito/credito fra soggetti vicini alle “famiglie”. Le decisioni in merito ad alcune estorsioni venivano assunte su indicazione diretta del latitante Messina Denaro.
Il ruolo svolto da Giuseppe Calcagno ha consentito a Gondola l’esercizio delle sue funzioni apicali, eseguendone puntualmente gli ordini e ha costituito un punto di riferimento nel segreto circuito di comunicazioni finalizzate alla veicolazione dei “pizzini” del latitante Matteo Messina Denaro.
Anche il ruolo di Manzo è stato di favorire l’esercizio della posizione di comando di Gondola: ha partecipato a riunioni e incontri con altri membri dell’organizzazione e ha favorito lo scambio di informazioni, anche operative, con membri e vertici delle famiglie mafiose della provincia di Trapani e di altre province. Manzo si è imposto nel territorio quale imprenditore del settore di carburanti in posizione dominante in forza dalla sua appartenenza a Cosa nostra.
Infatti, è indagato, in concorso, anche per aver costretto, con l’intimidazione mafiosa, un dipendente di una società per la vendita di carburanti di Campobello di Mazara a rassegnare le dimissioni, rinunciando al pagamento degli stipendi arretrati e alle altre spettanze economiche derivanti dal suo rapporto di lavoro.
Manzo era stato già condannato per aver favorito la latitanza del boss Vincenzo Sinacori e successivamente per danneggiamento aggravato ai danni dell’abitazione di un politico di Castelvetrano.
Sono state documentate le pressioni estorsive esercitate su un agricoltore marsalese, al fine di costringerlo a cedere a un membro dell’associazione un appezzamento di terreno, che invece avrebbe voluto acquistare per sé. Le indagini hanno fatto luce anche sui contrasti fra uno degli indagati mafiosi e alcuni imprenditori agricoli e allevatori.
L’intervento di Cosa nostra era essenziale anche per risolvere dissidi per l’utilizzo di alcuni fondi agricoli e per il pascolo nelle campagne di Castelvetrano. Attraverso le intercettazioni è stato scoperto il tentativo di estorsione nei confronti degli eredi del defunto boss campobellese Alfonso Passanante affinchè cedessero la proprietà di un vasto appezzamento di terreno in contrada Zangara di Castelvetrano, appartenuto al boss Riina.
Le minacce dalla cosca mafiosa di Campobello, rappresentata dal boss mafioso Vincenzo La Cascia, furono avallate anche da una lettera intimidatoria attribuita a Messina Denaro risalente al 2013.
LA “FIGLIOCCIA” DI DON VITO. Gli uomini d’onore più in vista erano intervenuti anche per imporre la vendita di un terreno a Leonarda Furnari, figlia di un boss morto suicida in carcere e ‘figlioccia’ di don Vito Gondola. Leonarda Furnari, 36 anni, si era rivolta alla cosca di don Vito per indurre l’acquirente di un terreno a farsi da parte.
La donna ha un’azienda di allevamento ed era interessata al terreno per la sua attività. Le indagini hanno ricostruito tutti i suoi contatti, gli incontri, le conversazioni da cui risulta che era inserita nel ‘tessuto mafioso’ e rivendicava la sua appartenenza come una ‘filosofia di via’. Ma, secondo il gip, non è dimostrata la sua partecipazione alla rete di Messina Denaro.
VILLA BRUCIATA A POLITICO PD. Si era esposto attaccando Matteo Messina Denaro. Per questo gli uomini del ‘padrino’ avevano incendiato la villa dell’architetto Pasquale Calamia, consigliere comunale del Pd, a Castelvetrano. E affinché il senso dell’intimidazione fosse ancora più terrificante, gli attentatori gli fecero trovare anche lumini funebri. Il primo passo, era il segnale, poi per Calamia sarebbe scattata la condanna a morte. L’episodio risale al 2010 e viene ricostruito ora dall’inchiesta “Ermes fase 3” sulla rete di Messina Denaro per mettere a fuoco la caratura criminale di uno degli arrestati, Marco Manzo. L’uomo è stato infatti accusato di essere l’autore dell’intimidazione all’esponente del Pd, insieme a due complici. Nel 2015 è stato condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione.
Arrestati favoreggiatori di Messina Denaro
Blitz della polizia tra Trapani e Caserta: due in manette e 15 indagati. Villa bruciata a politico schieratosi contro il capomafia VIDEO