PALERMO – Capimafia e boss della Stidda sono coinvolti nell’inchiesta della Dda di Palermo che oggi ha portato a 22 fermi. L’indagine colpisce le famiglie mafiose agrigentine e trapanesi ed è coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Gianluca De Leo.
L’inchiesta riguarda anche un ispettore e un assistente capo della polizia, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d’ufficio, e un avvocato. Gli indagati rispondono a vario titolo di mafia, estorsione, favoreggiamento aggravato.
RIUNIONI DEI BOSS IN STUDIO AVVOCATA. Per 2 anni i capimafia di diverse province siciliane si sono riuniti nello studio di un’avvocata di Canicattì finita in cella oggi nel blitz dei carabinieri. La legale, difensore di diversi mafiosi, era la compagna di un imprenditore già condannato per associazione mafiosa. Il suo studio era stato scelto come base logistica dei clan perché la legge limita le attività investigative negli uffici degli avvocati.
Gli inquirenti hanno accertato che la donna, Angela Porcello, aveva assunto un ruolo di vertice in Cosa nostra organizzando i summit, svolgendo il ruolo di consigliera, suggeritrice e ispiratrice di molte attività dei clan. Rassicurati dall’avvocato sulla impossibilità di effettuare intercettazioni nel suo studio, i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, un ex fedelissimo del boss Bernardo Provenzano di Villabate (Pa) e il nuovo capo della Stidda si ritrovavano secondo le indagini nello studio, per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra.
Le centinaia di ore di intercettazione disposte dopo che, nel corso dell’inchiesta, i carabinieri hanno compreso la vera natura degli incontri, hanno consentito agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan, sulle dinamiche interne alle cosche e di coglierne in diretta, dalla viva voce di mafiosi di tutta la Sicilia, storie ed evoluzioni. Uno spaccato prezioso che ha portato all’identificazione di personaggi ignoti agli inquirenti e di boss antichi ancora operativi.
LA RIORGANIZZAZIONE. Nel mandamento mafioso di Canicattì la Stidda torna a riorganizzarsi e ricompattarsi attorno alle figure di due ergastolani riusciti a ottenere la semilibertà. In particolare uno dei capimafia, indicato come il mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, avrebbe sfruttato i premi che in alcuni casi spettano anche ai condannati al carcere a vita, per tornare ad operare sul territorio e rivitalizzare la Stidda che sembrava ormai sconfitta.
Dopo aver scontato 25 anni per l’assassinio del giovane magistrato, trucidato il 21 settembre del 1990 e da poco proclamato Beato da Papa Francesco, il boss Antonio Gallea è stato ammesso alla semilibertà dal tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio del 2015 perché ha mostrato la volontà di collaborare con la giustizia.
L’altro capomafia attorno al quale la Stidda si sarebbe andata ricompattando ha scontato 26 anni ed è stato ammesso al beneficio della semilibertà il 6 settembre del 2017 e autorizzato dal tribunale di Sassari a lavorare fuori dal carcere. Anche lui avrebbe mostrato l’intenzione di aiutare gli investigatori. Una “collaborazione” che la giurisprudenza definisce “impossibile”, in quanto entrambi hanno parlato di fatti già noti alla magistratura non apportando, dunque, contributi nuovi alle indagini, ma che ha consentito a tutti e due di beneficiare di premialità.
CONCORRENZA A COSA NOSTRA. Dall’inchiesta è emerso che gli stiddari sono tornati a far concorrenza a Cosa Nostra, con la quale alla fine degli anni ’80 si erano fronteggiati in una guerra con decine di morti. Stavolta la “competizione” tra le due organizzazioni criminali non ha ancora visto spargimenti di sangue, anzi le due mafie si sarebbero spartite gli affari. Come quelli nel settore delle mediazioni nel mercato ortofrutticolo, uno dei pochi produttivi della provincia di Agrigento. Dall’indagine viene fuori inoltre che gli stiddari avrebbero usato la loro forza intimidatoria per commettere estorsioni e danneggiamenti. Scoperto anche un progetto di omicidio di un commerciante e di un imprenditore, evitato grazie all’intervento degli investigatori. La Stidda – hanno scoperto i militari dell’Arma – poteva contare su un vero e proprio arsenale di armi.
La mafia agrigentina controllava e sfruttava il settore del commercio di uva e altri prodotti agricoli nella provincia accaparrandosi ingenti risorse economiche che andavano ad alimentare le casse dei clan e limitavano il ricorso ad attività illecite rischiose come il traffico di droga. Nello stesso tempo le cosche presidiavano la principale attività economica del territorio in una provincia saldamente legata al mercato agroalimentare.
LE FALLE DEL 41BIS. Diversi capimafia, come il boss ergastolano agrigentino Giuseppe Falsone, sarebbero riusciti a parlare tra loro, a scambiarsi messaggi – nonostante fossero detenuti al carcere duro – e a far arrivare ordini all’esterno. In alcuni casi, secondo le indagini, grazie alla complicità di alcuni agenti di polizia penitenziaria addetti ai controlli dei carcerati al 41 bis, a volte riuscendo, per falle del sistema, a eludere la sorveglianza e a passare informazioni a gesti senza essere intercettati.
AVVOCATO-COMPLICE. In particolare, dall’indagine è emerso che un agente in servizio nel carcere di Agrigento, durante un colloquio telefonico tra il boss ergastolano Giuseppe Falsone, ex capo della mafia agrigentina, e un’avvocata, fermata oggi con l’accusa di mafia, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con Falsone. Il boss, inoltre, sarebbe riuscito a inviare messaggi all’esterno, perché in alcuni istituti di pena non viene controllata la corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e i propri difensori.
Sfruttando questo limite nella vigilanza Falsone, attraverso il suo avvocato, sarebbe riuscito a fare uscire dal carcere i messaggi che, in prima battuta, essendo destinati a terzi, erano stati censurati dal magistrato di sorveglianza. L’indagine ha accertato inoltre che boss di Agrigento, Trapani e Gela, tutti detenuti nel carcere di Novara, sfruttando inefficienze nei controlli dialogavano tra loro riuscendo anche a saldare alleanze tra cosche di territori diversi. Durante l’inchiesta, è stata anche intercettata una telefonata di un agente di polizia penitenziaria in servizio ad Agrigento all’avvocata indagata: i due avrebbero parlato di un assistito della legale, detenuto in cella per mafia. L’agente avrebbe informato la donna che il suo cliente l’indomani sarebbe stato spostato in aereo in un altro carcere.
IN GINOCCHIO DAVANTI AL BOSS. Rubava senza l’autorizzazione di Cosa nostra, un comportamento di cui è stato chiamato a rispondere. Immortalato dalle microspie dei carabinieri il ladro è stato costretto a inchinarsi davanti al boss di Canicattì Calogero Di Caro implorandone il perdono per sé e per la propria famiglia. Il boss dispensava la sua assoluzione: il tutto sotto gli occhi delle telecamere che hanno avuto la prova del ruolo incontrastato dello storico capomafia di Canicattì, che, dai domiciliari per ragioni di età, continuava a curare interessi e assetti del mandamento. Lo affiancavano, in una sorta di triumvirato, altri due uomini d’onore. Insieme gestivano gli affari di un ampio territorio che si estende da Canicattì a Campobello di Licata imponendo le loro “regole” sulla criminalità comune totalmente assoggettata all’anziano padrino.
IL BOSS E LA METAFORA DEL CARCIOFO. “La Sicilia è una terra desolata, è una terra di miseria, ora si formeranno tutte situazioni di piccolo banditismo che sarà micidiale, questi nascono per natura, no? Lei ce l’ha presente il carciofo? Come si coltiva il carciofo?”, così il boss agrigentino Giuseppe Falsone, non sapendo di essere intercettato mentre parla col suo legale, usa la metafora del carciofo per descrivere la recrudescenza della criminalità comune.
“Ogni carciofi si vede che fa 20 carduna (i getti della pianta ndr), e così è la cosa… quando non c’è ragionevolezza, ognuno poi ragiona a conto suo – spiega alludendo al fatto che senza il controllo di Cosa nostra la microcriminalità prolifera – quando non c’è punto di riferimento… la società da noi è una società difficile, c’è da scappare dalla Sicilia, io non lo so come la gente resiste…”.
TUTTI I NOMI. Gli indagati nel corso dell’operazione antimafia sono: il latitante Matteo Messina Denaro, detto U Sicccu, 58 anni Castelvetrano (Tp); Giuseppe Falsone, 50 anni, Campobello di Licata (Ag); Giancarlo Bugea, 50 anni, Palermo; Luigi Boncori, 68 anni, Ravanusa (Ag); Luigi Carmina, 57 anni Caltanissetta; Simone Castello, 71 anni, Villabate (Pa); Antonino Chiazza, 51 anni, Agrigento; Diego Emanuele Cigna, 21 anni, Canicattì (Ag); Giuseppe D’Andrea, 49 anni, Agrigento; Calogero Di Caro, 74 anni, Canicattì (Ag); Pietro Fazio, 48 anni, Canicattì (Ag); Gianfranco Roberto Gaetani, 53 anni, Naro (Ag); Antonio Gallea, 63 anni, Canicattì (Ag); Giuseppe Giuliana, 55 anni, Francia; Gaetano Lombardo, 64 anni, Ravanusa (Ag); Gregorio Lombardo, 66 anni, Favara (Ag); Antonino Oliveri, 36 anni Canicattì (Ag); Calogero Paceco, 56 anni, Naro (Ag); Giuseppe Pirrera, 61 anni, Favara (Ag); Filippo Pitruzzella, 60 anni, Campobello di Licata (Ag); Angela Porcella, 50 anni, Agrigento; Santo Rinallo. 60 anni, Canicattì (Ag); Giuseppe Sicilia, 41 anni Agrigento.