La Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio di 34 persone accusate, a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione e traffico di droga. Tra gli imputati anche Rosario Pace, ritenuto a capo del clan di Palma di Montechiaro. Il procedimento, coordinato dal pm della Dda Piero Padova, nasce dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe Quaranta.
Il gruppo criminale, denominato “paracco”, non farebbe parte di Cosa Nostra, ma ne avrebbe tutte le caratteristiche organizzative. Come la stidda si affiancava alla mafia, di cui subiva l’autorità , ma si muoveva in autonomia. Quaranta ha descritto le “famigghiedde” costituite da una decina di persone, i “paraccari”, con una struttura gerarchica composta da capi, sottocapi, capidecina. L’inchiesta nasce dall’operazione che, a febbraio scorso, portò all’arresto di boss e gregari mafiosi del trapanese e dell’agrigentino. Tra gli indagati anche il capomafia latitante di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, il boss agrigentino Giuseppe Falsone e Simone Castello, “postino” del padrino Bernardo Provenzano.
L’indagine coinvolse anche l’imprenditore Giancarlo Buggea e la compagna Angela Porcello, avvocato, che a seguito dell’inchiesta, è stata cancellata dall’Ordine. Le accuse vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzato, alle estorsioni, sino alla pianificazione di due omicidi che non si verificarono per l’intervento delle forze dell’ordine. Gli investigatori, coordinati dai pm Gianluca De Leo, Claudio Camilleri e Francesca Dessì e dall’aggiunto Paolo Guido, accertarono tra l’altro che “cosa nostra” e la “stidda” si spartivano gli affari illeciti.
Per due anni, secondo gli inquirenti, nell’ufficio della penalista si sarebbero tenuti summit tra i vertici delle cosche agrigentine. Rassicurati dall’avvocato, i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, Simone Castello e il nuovo capo della Stidda, l’ergastolano Antonio Gallea, killer del giudice Rosario Livatino, a cui i magistrati avevano concesso la semilibertà , si sono ritrovati nello studio della Porcello per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra. Le centinaia di ore di intercettazione disposte hanno consentito agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan, sulle dinamiche interne, di coglierne in diretta, dalla viva voce di mafiosi di tutta la Sicilia, storie ed evoluzioni. Difensore del boss ergastolano Giuseppe Falsone la Porcello si era fatta nominare legale di fiducia di altri due boss al 41 bis, il trapanese Pietro Virga e il gelese Alessandro Emmanuello, riuscendo a fare da tramite tra i tre, tutti detenuti nel carcere di Novara. Dall’indagine è emerso anche che un agente di polizia penitenziaria, durante un colloquio telefonico tra Falsone e la Porcello avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con il boss che sarebbe inoltre riuscito a inviare messaggi all’esterno.