PALERMO – Una verità processuale completamente diversa da quella finora ricostruita nelle aule giudiziarie. La storia della presunta trattativa che pezzi dello Stato avrebbero avviato coi boss per far cessare le stragi mafiose è stata totalmente riscritta dalla Corte d’Assise d’appello di Palermo che, dopo 72 ore di camera di consiglio, ha ribaltato il verdetto di primo grado, demolendo un impianto accusatorio messo su in anni di indagini e processi. Assolti dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato Mario Mori, ex generale dei carabinieri del Ros, Antonio Subranni, ex capo del Raggruppamento Speciale dell’Arma, e l’ufficiale Giuseppe De Donno. Assolto anche Marcello Dell’Utri, ex senatore azzurro accusato dello stesso reato.
Condanne pesanti, invece, per i capimafia Leoluca Bagarella e Nino Cinà, che con la violenza delle bombe mafiose fecero guerra allo Stato. Ma per comprendere il dispositivo della Corte occorre porre attenzione sulle formule assolutorie scelte.
I ROS. Se i carabinieri escono dal processo “perché il fatto non costituisce reato”, l’ex manager di Publitalia viene scagionato “per non aver commesso il fatto” . Una distinzione sostanziale. I carabinieri – ovviamente le motivazioni della sentenza renderanno più chiaro il ragionamento seguito – dunque avrebbero sì intavolato un dialogo con le cosche tramite don Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, allo scopo di far cessare le stragi. Fatto peraltro ammesso dagli stessi ufficiali. Ma la loro intenzione, e qui sta la differenza con la ricostruzione dei giudici di primo grado che agli ufficiali hanno inflitto pene durissime, non era farsi portavoce presso le istituzioni della minaccia di Cosa nostra. Agirono sì, dunque, ma a fin di bene.
Una visione completamente opposta a quella della Corte d’Assise, secondo la quale i carabinieri con il loro comportamento finirono per rafforzare Cosa nostra e indurla a pensare che lo Stato, pronto ad ascoltare le sue istanze, stava per capitolare. “Possiamo dire che la storia della trattativa era una bufala”, commenta lapidario Basilio Milio, legale di Mori.
DELL’UTRI. Quella di Dell’Utri, invece, è una storia diversa. L’ex senatore, accusato di esser stato, dopo il 1993, la cinghia di trasmissione tra la mafia e le istituzioni e di aver fatto arrivare la minaccia dei clan al governo guidato da Silvio Berlusconi, chiude la sua vicenda processuale “per non aver commesso il fatto”. “La sentenza dice che non fu trait d’union tra mafia e politica”, riassume il suo legale. “Tutto inventato, un film”, commenta l’ex senatore.
I MAFIOSI. E i capimafia condannati? Per la corte, i boss imputati – Leoluca Bagarella e Nino Cinà, quest’ultimo “postino” del cosiddetto papello che Riina avrebbe messo sul tavolo della trattativa per far cessare le stragi – minacciarono lo Stato facendogli la guerra. Ma se per Cinà, protagonista della prima fase della cosiddetta trattativa, la pena di 12 anni è stata confermata, per Bagarella i giudici hanno fatto un distinguo, sostenendo che da un certo periodo in poi, e cioè durante il governo Berlusconi, l’intimidazione non sarebbe riuscita, ma sarebbe rimasta un mero tentativo. Questo ha comportato, per il boss stragista, una lieve riduzione della pena: 27 anni invece di 28. La corte ha confermato invece la prescrizione dei reati contestati al pentito Giovanni Brusca. Si chiude per ora – certamente la Procura generale, che oggi ha scelto un laconico “leggeremo le motivazioni”, impugnerà in Cassazione – una storia lunga 13 anni, fatta di polemiche anche aspre e di processi interminabili.
Almeno tre oltre a questo: due agli ufficiali del Ros, accusati e sempre assolti, di aver fatto favori alla mafia per portare avanti la trattativa, uno all’ex ministro Dc Calogero Mannino, per i pm primo motore del dialogo Stato-mafia. Prosciolto in tre gradi di giudizio con un verdetto, ormai definitivo, che nega l’esistenza della trattativa. Sentenze pesanti che hanno minato gravemente l’impianto accusatorio. E che, probabilmente, hanno influito in modo determinante sulla decisione della corte d’assise d’appello.
IL TESTO . “In parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Palermo in data 20 aprile 2018 – si legge – assolve De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subranni Antonio dalla residua imputazione a loro ascritta per il reato di cui al capo A, perché il fatto non costituisce reato”.
“Dichiara – prosegue il dispositivo – non doversi procedere nei riguardi di Bagarella Leoluca Biagio, per il reato di cui al capo A, limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del governo presieduto da Silvio Berlusconi, previa riqualificazione del fatto… come tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello stato, per essere il reato così riqualificato estinto per intervenuta prescrizione. E per l’effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella in anni 27 di reclusione”.
“Assolve Dell’Utri Marcello dalla residua imputazione per il reato di cui al capo A, come sopra riqualificato, per non avere commesso il fatto e dichiara cessata l’efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio già applicata nei suoi riguardi”.
La Corte ha revocato le statuizioni civili nei riguardi degli imputati De Donno, Mori, Subranni e Dell’Utri e rideterminato in 5 milioni di euro l’importo complessivo del risarcimento dovuto alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La Corte d’assise “conferma nel resto l’impugnata sentenza anche nei confronti di Giovanni Brusca e condanna gli imputati Bagarella Cinà alla rifusione delle ulteriori spese processuali in favore delle parti civili (Presidenza del Consiglio dei ministri, presidenza della regione siciliana, comune di Palermo, associazione tra familiari contro le mafie, centro Pio La Torre”. La corte ha fissato in 90 giorni il termine per il deposito delle motivazioni.
SENTENZE IN PRIMO GRADO. In primo grado il dibattimento, presieduto da Alfredo Montalto, era cominciato il 27 maggio 2013 e si era concluso con condanne molto severe il 20 aprile 2018, quando Riina e Provenzano erano già morti. La pena più grave – ben 28 anni – era andata a Bagarella. E poi 12 anni per Mori, Subranni, Dell’Utri e Cinà, 8 per De Donno. La condanna a 8 anni di Ciancimino (calunnia) è già prescritta. Prescritte anche le accuse a Brusca. Per i giudici di primo grado la “trattativa” dunque ci fu ed era illegittima perché protagonisti erano uomini delle istituzioni e soggetti che “rappresentavano l’intera associazione mafiosa”. Su questa tesi accusa e difesa hanno ingaggiato nel giudizio di appello, cominciato il 29 aprile 2019, un confronto molto serrato. E stavolta il verdetto è ribaltato. C’erano le minacce della mafia ma non la “trattativa”.
PG: “VALUTEREMO SE IMPUGNARE IL VERDETTO”. “Dire ora, senza aver letto le motivazioni, se ricorreremo in Cassazione contro la sentenza di ieri, sarebbe un inammissibile passo in avanti”. Lo spiega Anna Maria Palma, procuratore generale facente funzioni di Palermo, a proposito dell’intenzione dell’accusa di impugnare la sentenza della Corte d’assise d’appello. “La sentenza – spiega Palma, che regge l’ufficio in attesa della nomina del nuovo procuratore generale – potrebbe anche convincerci, perciò attendiamo di leggere le motivazioni prima di qualunque decisione”.