Due giornalisti per anni spine nel fianco dei loro governi: il Nobel per la Pace quest’anno è stato conferito a loro. La filippina Maria Ressa e il russo Dmitry Muratov sono stati premiati da Oslo per la loro lotta in difesa della libertà di espressione – “condizione preliminare della democrazia e di una pace duratura” – nei loro Paesi. Anche a costo di minacce significative. Un riconoscimento che Muratov ha scelto di dedicare al suo giornale, Novaya Gazeta, e ai sei reporter uccisi. E che avrebbe preferito venisse assegnato ad Alexey Navalny, l’oppositore del Cremlino in carcere.
Maria Ressa ha co-fondato il sito di notizie Rappler nel 2012, che ha raggiunto 4,5 milioni di follower su Facebook. Con le sue indagini ostinate, è diventato uno dei pochi media apertamente critici nei confronti del presidente filippino Rodrigo Duterte. Squarciando il velo della sua micidiale guerra alla droga, con migliaia di uccisioni extragiudiziali commesse dalla polizia. E prendendo di mira violazioni dei diritti umani e casi di corruzione che hanno rappresentato un’ombra nell’amministrazione del controverso leader populista. Tutte indagini costate a Ressa numerosi processi e una condanna per diffamazione, per la quale rischia fino a sei anni di carcere. La reporter 58enne, secondo il comitato per il Nobel, ha utilizzato la libertà di espressione per “smascherare l’abuso di potere, l’uso della violenza e il crescente autoritarismo nel suo paese natale, le Filippine”. E per la diretta interessata questo Nobel per la pace dimostra che “nulla è possibile senza i fatti” e “non sarebbe potuto arrivare in un momento migliore, in cui i giornalisti e la verità vengono minacciati e attaccati”.
Anche in Russia la difesa della libertà di parola è stata una battaglia sempre più difficile negli ultimi anni, ha sottolineato il comitato di Oslo, motivando il riconoscimento a Dmitry Muratov, co-fondatore e direttore di Novaya Gazeta. Il suo giornale indipendente da quasi 30 anni conduce indagini su presunti casi di corruzione e altri illeciti che coinvolgono l’élite russa ed è rimasto uno dei pochi media a criticare espressamente Vladimir Putin. Novaya Gazeta è stata oggetto di minacce e vessazioni anche per aver denunciato violazioni di diritti umani in Cecenia. Sei suoi giornalisti sono stati uccisi, tra cui Anna Politkovskaja, nell’ascensore del suo palazzo a Mosca esattamente 15 anni fa, il 7 ottobre 2006. Omicidio commesso da un commando ceceno, ma di cui ancora oggi non si conoscono i mandanti, tanto che la Corte europea dei diritti umani ha condannato Mosca per non aver condotto un’indagine esaustiva.
Muratov ha tenuto a dedicare il Nobel proprio ai suoi colleghi uccisi, sottolineando si tratta di “un riconoscimento per il giornalismo russo che viene represso”. Il direttore di Novaya Gazeta, a questo proposito, non ha risparmiato una stilettata al Cremlino, affermando che lui avrebbe premiato Navalny: il più popolare avversario di Putin, in carcere da mesi, e che Amnesty International ha definito un “prigioniero di coscienza”. A Mosca la provocazione non è stata raccolta e il portavoce di Putin, Dmitri Peskov, si è congratulato con Muratov per il suo “talento e coraggio”. Ma nelle stesse ore il ministero della Giustizia russo ha incluso altri nove giornalisti e tre società nel registro dei media “agenti stranieri”, per non meglio precisate “attività politiche”. Uno strumento che, secondo molti osservatori, consente di fatto alle autorità di prendere di mira persone ed entità ritenute scomode. Il Nobel ai due reporter è stato applaudito unanimemente, dall’Ue all’Onu. Per Reporter senza frontiere, che da anni denuncia la repressione della libertà di stampa in tutto il mondo, questo premio equivale a “una chiamata alla mobilitazione, alla difesa del giornalismo”.