PALERMO – Polizia e Carabinieri di Palermo hanno eseguito una misura cautelare nei confronti di 31 indagati accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, detenzione e produzione di stupefacenti, detenzione di armi, favoreggiamento personale ed estorsione con l’aggravante del metodo mafioso. Per 29 è scattato il carcere e due sono finiti agli arresti domiciliari. Le indagini sono state coordinate dalla Dda. L’inchiesta ha permesso di fare luce sull’organigramma delle famiglie mafiose dei mandamenti di Ciaculli e Brancaccio, che comprende clan come Corso dei Mille e Roccella. La polizia giudiziaria ha eseguito un sequestro preventivo del capitale sociale, di beni aziendali e dei locali di alcune imprese per un presunto valore complessivo di circa 350.000 euro. Secondo le indagini i beni sarebbero stari intestati a prestanomi di mafiosi. Al centro dell’indagine sono finite una rivendita di prodotti ittici, due rivendite di caffè e tre agenzie di scommesse.
GLI INDAGATI. In carcere sono finiti i palermitani Vittorio Emanuele Bruno, 43 anni; Ludovico Castelli, 55 anni; Paolino Cavallaro, 28 anni; Girolamo Celesia, detto Jimmy, 53 anni; Settimo Centineo, 39 anni; Antonino Chiappara, 55 anni; Giuseppe Ciresi, 33 anni; Maurizio Di Fede, 53 anni; Gioacchino Di Maggio, 39 anni; Pietro Paolo Garofalo, 53 anni; Sergio Giacalone, 53 anni; Francesco Greco, 64 anni; Antonino Lauricella, 52 anni; Ignazio Lo Monaco, 46 anni; Antonino Lo Nigro, 42 anni; Salvatore Lotà, 62 anni; Tommaso Militello, 58 anni; Rosario Montalbano, 35 anni; Antonino Mulé, 41 anni; Tommaso Nicolicchia, 38 anni; Francesco Oliveri, 37 anni; Onofrio Claudio Palma, 43 anni; Vincenzo Procaccianti, 40 anni; Emanuele Prestifilippo, 51 anni; Cosimo Salerno, 44 anni; Andrea Seidita, 48 anni; Luciano Uzzo, 52 anni; Giuseppe Parisi, 45 anni, nato a Melito Porto Salvo (Rc); Pietro Parisi, 41 anni, nato a Siderno (Rc). Ai domiciliari Michele Mondino, 78 anni, e Giuseppe Orilia, 71 anni.
IL BUSINESS DELLE ESTORSIONI. Le misure cautelari dalla scorsa notte sono state eseguite a Palermo, Reggio Calabria, Alessandria e Genova. Le indagini hanno fatto luce sui nuovi vertici del clan di Brancaccio. Sono così stati identificati capi, gregari e “soldati,” affiliati a Cosa nostra che avrebbero messo a segno decine di estorsioni, commesse a numerosissimi commercianti e imprenditori e avrebbero gestito le piazze di spaccio sparse sul territorio di Brancaccio. Parte dei soldi messi insieme da queste attività sarebbero stati utilizzati per mantenere le famiglie dei carcerati. Nell’ordinanza vengono ricostruite e documentate 50 estorsioni ai danni di titolari di esercizi commerciali: dal piccolo ambulante abusivo fino all’operatore della grande distribuzione. Il pizzo veniva imposto a tutti gli operatori economici. L’estorsione non ha risparmiato neppure un venditore di sfincione (focaccia tipica a Palermo ndr), il quale, dopo aver trovato i lucchetti bloccati dall’attak si è rivolto a uno degli indagati per la “messa a posto”. Anche un imprenditore edile si è rivolto alla famiglia di Brancaccio per poter costruire appartamenti senza problemi. Aveva intenzione di acquistare un terreno e ancora prima, come emerge in una conversazione registrata dalla polizia, avrebbe chiesto la protezione alla famiglia mafiosa per non incorrere in furti, rapine o danneggiamenti. I sopralluoghi degli uomini del racket e la richiesta di pizzo sarebbero avvenuti anche nei cantieri in prossimità di un commissariato di polizia.
TRAFFICO E SPACCIO DI DROGA. Cosa nostra torna a puntare sul traffico di stupefacenti che rappresenta un’importante voce nel bilancio delle famiglie mafiose. Dalle “sei piazze di spaccio dello Sperone”, tutte direttamente gestite o comunque controllate dai componenti dei clan, il ricavo presunto calcolato è di circa 80.000 euro settimanali. Nel corso delle indagini è emerso che le cosche si rifornivano di droga dalla Calabria. Durante l’inchiesta sono stati 16 gli arresti in flagranza per detenzione di sostanza stupefacente e sono stati sequestrati circa 80 chili di droga tra cocaina, purissima ancora da tagliare, hashish e marijuana per un valore sul mercato di oltre 8 milioni di euro.
NELLE INTERCETTAZIONI OFFESE AGLI ‘SBIRRI’. E ci sarebbe Cosa nostra anche dietro al furto di venti cartoni con 16 mila mascherine FFp3 sottratte per rivenderle, in piena emergenza epidemiologica. Nella misura cautelare, ricordando un episodio emerso già tre anni fa, il giudice stigmatizza la subcultura mafiosa sottolineando che “non ci si può esimere dal rimarcare che costituisce plastica dimostrazione di come la scelta di vita degli indagati sia fondata, già in termini culturali e ideali, proprio su un principio di contrapposizione ai fondamenti della libertà democratica e al rispetto delle regole, il reiterato utilizzo delle parole ‘sbirro o carabiniere’ quali vere e proprie offese che si ritrova in più conversazioni intercettate”. Il gip richiama una intercettazione di un boss, già venuta fuori anni fa, che nel maggio del 2019, durante i preparativi per il ricordo della strage di Capaci e via D’Amelio, bacchettava il familiare di un coindagato perché voleva far partecipare la figlia alle iniziative scolastiche organizzate per commemorare i giudici Falcone e Borsellino. “E’ per la verità ancora più sconcertante, il fatto che la formazione mafiosa – dice il gip – non abbia risparmiato nemmeno una bambina in tenera età che, dopo lunga preparazione, si accingeva a partecipare a una iniziativa scolastica in memoria dei rimpianti giudici Borsellino e Falcone”.
PIZZO AGLI AGRICOLTORI PER L’ACQUA. L’organizzazione mafiosa avrebbe imposto anche le cosiddette sensalerie, delle vere e proprie mediazioni, sulle compravendite di immobili nel territorio. I cittadini per concludere affari immobiliari, si sarebbero visti costretti ad accettate l’intermediazione degli indagati ritenute dagli investigatori delle vere e proprie estorsioni. Molto diffusa nella zona sarebbe stata la coltivazione di cannabis che serviva a rifornire le piazze di spaccio del capoluogo. La mafia di Ciaculli avrebbe anche messo le mani sull’acqua. Soprattutto quella irrigua da fornire ai contadini. Acqua che sarebbe stata sottratta direttamente alla conduttura “San Leonardo”, di proprietà del “Consorzio di Bonifica Palermo 2”. Gli uomini della famiglia mafiosa di Ciaculli avrebbero deviato l’acqua delle condutture incanalandola in vasche di loro proprietà, per poi ridistribuirla ai contadini nelle campagne Ciaculli-Croceverde Giardini e Villabate. Per molti produttori la famiglia di Ciaculli era diventata punto di riferimento per la gestione di uno dei beni essenziali nella coltivazione.
L’ARSENALE DEL CLAN CIACULLI. Dalle indagini è anche emerso che il clan di Ciaculli avrebbe avuto a disposizione un vero e proprio arsenale di armi. Uno degli arrestati, Emanuele Prestifilippo, è stato trovato con un fucile da caccia marca Beretta cal. 12 e otto munizioni celate all’interno di alcune balle di fieno accatastate nel maneggio di sua proprietà nella zona di Croceverde Giardini. I militari hanno accertato, infine, che la famiglia mafiosa poteva contare anche su numerose armi semiautomatiche gestite e nascoste nelle campagne di Ciaculli. Armi che sinora non sono state trovate.