MILANO – Si è concluso con la conferma della condanna a un anno e mezzo di carcere, con pena sospesa e non menzione, il processo davanti alla Corte d’Appello di Milano nel quale una 26enne rispondeva di atti persecutori e violenza privata con l’aggravante dell’essersi avvalsa “della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete” poiché nel 2017, spacciandosi per “curatore” nell’ambito della cosiddetta ‘Blue Whale Challenge’, avrebbe costretto, attraverso i social, una dodicenne di Palermo, a infliggersi alcuni tagli sul corpo e a inviarle le foto, come primo step di “50 prove di coraggio”.
La sentenza di qualche giorno fa è arrivata un anno dopo il processo di primo grado in cui il Tribunale ha ritenuto l’imputata responsabile di “indebite pressioni” sulla minorenne in modo da indurla a compiere gesti autolesionistici minacciandola, “facendo evidentemente leva sulla sua suggestionabilità e fragilità” e facendole credere di essere ‘curatore’. Il giudice monocratico Angela Martone, l’anno scorso, nelle sue motivazioni si è soffermato sui tratti essenziali del gioco che cinque anni fa aveva fatto scattare l’allarme per via dei molti suicidi tra i giovanissimi, soprattutto in Russia.
Il magistrato ha osservato che la ‘Blue Whale Challenge’, “non pare avere i connotati di una stabile associazione di persone realmente esistente, ma sembra piuttosto atteggiarsi quale fenomeno sociale spontaneo sviluppatosi per emulazione”. Inoltre, “limitatamente a quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale” ha sottolineato che “non vi è alcun elemento che faccia supporre una forma di coordinamento tra soggetti ‘curatori'” anche se, nel caso di specie, è stato fatto intendere il contrario.