Gli storici occhiali da sole a goccia Ray Ban che indossava Matteo Messina Denaro da ragazzo, una bottiglia di champagne e il libro “Facce da mafiosi”: sono le ultime scoperte fatte dai carabinieri di Trapani nel corso di una perquisizione nella casa della famiglia del capomafia, in via Alberto Mario a Castelvetrano. Si tratta dell’ultima abitazione del boss prima dell’inizio della latitanza. Lì Messina Denaro viveva con la madre. In molte foto da giovane il padrino appare con gli occhiali da sole ritrovati.
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Continuano le perquisizioni all’interno del covo di vicolo San Vito a Campobello di Mazara: “E’ stato trovato materiale ritenuto di interesse investigativo”, ha detto il colonnello Fabio Bottino, comandante provinciale dei carabinieri di Trapani. “Grazie all’impiego del georadar – aggiunge – si stanno cercando eventuali rifugi nascosti o intercapedini”. In merito all’eventuale presenza di indumenti femminili all’interno del covo, il comandante Bottino ha spiegato di non avere riscontri. I carabinieri del Ros hanno perquisito anche l’abitazione degli ex suoceri di Andrea Bonafede, che si trova da lunedì in carcere. I coniugi sono morti anni addietro e la casa risulta disabitata da tempo, in via San Giovanni, a poche centinaia di metri dall’abitazione di Giovanni Luppino e dell’appartamento dove, sino a giugno scorso, avrebbe vissuto Messina Denaro.
IL BOSS NON PARTECIPA ALL’UDIENZA. Intanto, Messina Denaro ha rinunciato a comparire all’udienza preliminare nel procedimento che vide coinvolti padrini, gregari della mafia agrigentina e l’avvocata Angela Porcello. La posizione del capomafia era stata stralciata perché Messina Denaro era latitante e in questi casi la legge prevede la sospensione del procedimento. All’udienza di oggi, alla quale il boss avrebbe potuto partecipare in videoconferenza dal carcere de l’Aquila, a rappresentare l’accusa c’era il pm della Dda Claudio Camilleri. Il processo in corso nasce da una indagine della Dda coordinata da Paolo Guido che portò a decine di arresti. Una tranche si è conclusa con condanne a pene comprese tra 10 mesi e 20 anni di boss e professionisti agrigentini accusati a vario titolo di associazione mafiosa. Condannati anche un poliziotto e un agente penitenziario che rispondevano, rispettivamente, di accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Il processo, è stato celebrato in abbreviato. L’avvocata Angela Porcello venne condannata a 15 anni e 4 mesi per associazione mafiosa.
Secondo quanto ricostruito dai pm per due anni, nell’ufficio della penalista si sarebbero tenuti summit tra i vertici delle cosche agrigentine. Rassicurati dall’avvocato, i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, Simone Castello, ex fedelissimo del boss Bernardo Provenzano e il nuovo capo della Stidda, l’ergastolano Antonio Gallea, a cui i magistrati avevano concesso la semilibertà, si ritrovavano nello studio della Porcello per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra. Le centinaia di ore di intercettazione disposte nello studio penale dopo che, nel corso dell’inchiesta, i carabinieri hanno compreso la vera natura degli incontri, hanno consentito agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan, sulle dinamiche interne, di coglierne in diretta, dalla viva voce di mafiosi di tutta la Sicilia, storie ed evoluzioni.