PALERMO – “L’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’ eliminazione di Paolo Borsellino”. Lo scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il processo si è concluso con la prescrizione del reato di calunnia aggravata contestato ai poliziotti Bo e Mattei e l’assoluzione del terzo poliziotto imputato, Michele Ribaudo.
“A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra”, aggiungono i giudici sulla sparizione dell’agenda rossa di Borsellino. “Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze: in primo luogo l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre. In secondo luogo un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage ( che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage”.
Per il tribunale “quel che è certo è che la gestione della borsa di Paolo Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile. Nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro e, nonostante da subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico scaturito”. Il collegio riepiloga tutta la vicenda gettando ombre sulla condotta di diversi esponenti delle istituzioni come il carabiniere Giovanni Arcangioli, visto allontanarsi con la valigetta e comunque prosciolto da ogni accusa e sottolineando che “appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda dal giudice Giuseppe Ayala pur comprendendosene lo stato emotivo profondamente alterato”.
Ad avviso del collegio “solo (se e) quando si potrà stabilire al fondo, e con chiarezza, il ruolo di Giovanni Arcangioli e il ruolo di Arnaldo La Barbera (che riconsegnò la borsa del giudice alla famiglia dopo mesi ndr) – soprattutto sotto il profilo del come si coniugano tra loro i due interventi sulla borsa – si potrà fare nuova luce sul tema della sparizione dell’agenda rossa di Borsellino. Sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che l’agenda sia sparita in un torno di tempo (immediatamente) successivo, tenere un reperto così importante per cinque mesi a decantare su un divano ha avuto certamente un’efficienza causale nello sviamento investigativo delle prime indagini, facendo venir meno l’attenzione sulla borsa e sul suo contenuto”.
A dimostrare l’ingerenza di terzi soggetti sarebbero “l’anomala tempistica della strage di via D’Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci), la presenza riferita dal pentito Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Non è aleatorio sostenere – si legge tra le motivazioni – che la tempistica della strage di via D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le sue azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali (soprattutto nel caso di magistrati) e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni. La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire a un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”.
Secondo i giudici “la ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese. La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata”.
Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. “L’odierno collegio – spiegano – ritiene che il diritto alla verità possa definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto, sia la prospettiva individuale, delle vittime e dei loro familiari, che quella collettiva”.