Com’è questo film? Lento. La sciocchezza più comune che si abbina a una storia cinematografica, scambiando la noia o la scarsa azione per un difetto di “velocità”, è proprio l’ultima che può venire in mente guardando “Oppenheimer”. Sperimentare in sala il fenomeno del momento, magari con la sempre preferibile opzione della lingua originale, è come percorrere per tre ore il ciglio di un burrone di notte senza luci: un attimo di distrazione e sei finito.
Non soltanto perché Christopher Nolan non può vivere senza dirigere un film che nelle fasi più rilassanti ti bombarda con dissertazioni sulla fisica quantistica (vedi Inception e Interstellar), ma soprattutto per la sconvolgente densità di avvenimenti, personaggi e dialoghi – eccessivamente scolpiti, alcuni di una sottigliezza davvero stratosferica – concentrati in un tempo cinematografico solitamente abnorme (180 minuti), ma in questo caso insufficiente. Tanto che più volte hai la sensazione che questo materiale fluviale sia troppo grande per essere contenuto in un’opera coerente e definitiva, perfino per il più illustre nerd nella storia del cinema.
Una sceneggiatura monumentale nelle mani di un solo genio, il regista stesso, che descrive quanto fosse ambiguo e sfuggente l’uomo della bomba, ma pure tutta la genesi tecnica dell’attacco al Giappone e gli intrallazzoni della politica statunitense nel maneggiare un personaggio non proprio addomesticabile all’interno dell’evento bellico più complesso che ci sia mai stato. Un’impresa narrativa fenomenale e impensabile per un unico scrittore, se dietro ad aiutarlo non ci fosse un libro sul più famoso Prometeo americano.
Gli scrupoli morali, che sono il primo elemento a balenare nella nostra testa quando si parla di Hiroshima e Nagasaki, non sono invece in cima alle priorità di Chris. Nolan è molto più interessato alla riesumazione selvaggia di attori dispersi: a cominciare naturalmente dalla versione inquietante di Beppe Bergomi, Cillian Murphy, fino a Josh Hartnet, Matthew Modine e James Remar, uno dei Guerrieri della notte. Ma c’è da mangiare per l’intero cinema hollywoodiano (mancano solo De Niro e Pacino utilizzati come uscieri nelle scene di massa), con Robert Downey Jr simil Henry Fonda-Jeremy Irons che vince a mani basse.
Dopo un quarto d’ora il concetto più importante è chiaro: se per il pastrocchio palindromo di “Tenet” una visione era pure troppo, il magnifico Oppenheimer necessita almeno un secondo giro; un’ulteriore poltronata semi-masochistica di tre ore di quelle che ti servono per sistemare qualche tessera del puzzle da 10.000 pezzi svolazzata nella fretta. Se non altro per riascoltare cosa dice il presidente Truman a “Oppy” dopo lo sgancio del 6 agosto: quello vale già tutto.