AGRIGENTO – I 6 pescatori-pirati, originari della Tunisia, restano in carcere. Lo ha deciso, convalidando il fermo d’iniziativa eseguito dalla Squadra mobile, dalla Guardia di finanza e Capitaneria di porto, il gip del tribunale di Agrigento, Stefano Zammuto. Come richiesto dal procuratore capo facente funzioni, Salvatore Vella, i sei – d’età compresa fra i 30 e i 52 anni – restano in cella per atti di pirateria, al “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento. Si tratta dell’equipaggio del peschereccio Zohra del compartimento di Monastir che ha – stando all’accusa – rubato il motore da un barchino di ferro, con 49 migranti a bordo, nonché il denaro di cui erano in possesso i migranti.
I migranti sono stati costretti, poiché minacciati d’essere lasciati alla deriva, anche a consegnare il denaro che ognuno di loro aveva con sé. Già nelle passate settimane, e fu il primo caso in assoluto in cui veniva contestata la pirateria marittima che è prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la squadra mobile di Agrigento, la sezione operativa navale della guardia di finanza e i militari della Capitaneria di Lampedusa, avevano fermato il comandante del motopesca Assyl Salah di Monastir e i tre componenti dell’equipaggio che avevano chiesto la consegna di cellulari e denaro in cambio di un traino per farli avvicinare a Lampedusa.
IL RACCONTO DEI MIGRANTI. “Quando è sopraggiunta una barca, pensavamo fossero i soccorsi e invece, non appena si sono avvicinati, abbiamo visto che si trattava di un peschereccio tunisino. Temendo che si potesse verificare quanto era accaduto pochi giorni prima, quando altri erano stati privati del loro motore, abbiamo deciso di non parlare con i pescatori ma i 6 uomini d’equipaggio ci hanno detto che dovevamo consegnare loro il nostro motore”. E’ il racconto di uno dei 49 migranti che erano a bordo del barchino, salpato da Sfax, agganciato e depredato, nella tarda mattinata di sabato, dai pescatori-pirati. “Il nostro timoniere – prosegue il migrante – ha provato ad allontanarsi, ma non c’è riuscito anche a causa del mare mosso che rendeva difficile ogni manovra. Temendo per la nostra incolumità, abbiamo accettato di legare la nostra barca, con una fune, al peschereccio tunisino”.
“Dopo aver legato la nostra barca al peschereccio, visto che i due natanti erano affiancati, – ricostruisce ancora il migrante – un pescatore si è sporto ed ha afferrato il nostro motore tirandolo a bordo del peschereccio. Tutto è avvenuto nonostante le nostre proteste: eravamo consapevoli che senza motore eravamo in pericolo. I pescatori tunisini per calmarci ci hanno detto che non ci avrebbero lasciati in balia delle onde e che avrebbero aspettato i soccorsi”. Per un breve tratto i migranti a bordo del barchino sono stati rimorchiati, poi i pescatori hanno deciso di mollare la fune e di allontanarsi. “Eravamo disperati – ricorda il testimone agli inquirenti – dopo circa 2 ore gli stessi pescatori sono tornati e ci hanno affiancato. Molti di noi piangevano per la paura. Probabilmente per calmarci hanno iniziato a lanciarci del pane. Hanno provato a rassicurarci, ci hanno detto che se avessimo consegnato loro del denaro, avrebbero aspettato l’arrivo dei soccorsi. Non avendo altre possibilità abbiamo accettato il ricatto, abbiamo raccolto complessivamente 150 dinari tunisini che abbiamo messo dentro un cappello e lo abbiamo lanciato sul peschereccio”. Stando sempre a questo racconto “i tunisini hanno continuato a trainarci per circa un’ora, fino a quando, in lontananza, abbiamo intravisto l’arrivo dei soccorsi italiani. In quel momento, il peschereccio ha invertito la rotta e si è allontanato in fretta”.