C’è una famiglia divisa fra L’Aquila e Castelvetrano a vegliare su Matteo Messina Denaro, da venerdì in coma irreversibile. Al suo capezzale, all’ospedale San Salvatore, ci sarebbero da alcuni giorni la figlia Lorenza mai incontrata prima e appena riconosciuta in carcere, la nipote Lorenza Guttadauro, che del boss è anche tutore legale, e la sorella Giovanna. Sono loro a tenere informati gli altri familiari in Sicilia sull’evoluzione di un quadro clinico disperato. A Castelvetrano le ultime ore del boss sono vissute in silenzio, secondo tradizione, dall’anziana madre Lorenza Santangelo e dalla sorella Bice. Il fratello Salvatore vive invece a Campobello di Mazara, il paese dell’ultimo covo di Matteo Messina Denaro. E la sorella Rosalia, conosciuta come Rosetta, nome in codice “Fragolona”, è in carcere con l’accusa di essere stata un elemento centrale del sistema criminale governato dal fratello.
L’ultimo padrino di Cosa nostra, riferiscono i medici aquilani, è “stabilmente grave e in esclusivo trattamento palliativo”. Secondo i medici il 62enne ha una tempra non comune, per cui la sua agonia potrebbe durare ancora, sia pure non a lungo. Il boss è sedato e in coma, senza nutrimento per endovena. I medici a stretto giro potrebbero ridurre ancora i medicinali sempre nel rispetto del no all’accanimento terapeutico chiesto dal boss nel testamento biologico. L’oncologo Luciano Mutti, che lo seguiva dal giorno dopo l’arresto, ha passato la mano ai colleghi delle terapie del dolore coordinati dal primario Franco Marinangeli. I medici, per espressa volontà del paziente, hanno staccato le macchine e sono tenuti a idratarlo ma non ad alimentarlo.
Non si può dire per quanto tempo ancora Messina Denaro, tenuto d’occhio costantemente da diverse decine di persone, potrà in queste condizioni sopravvivere a un devastante tumore al colon. Quello che è certo è che per la fine annunciata non ci saranno funerali religiosi. Anche questa è una volontà del boss lasciata scritta in un vecchio pizzino ritrovato dai carabinieri nel covo di Campobello di Mazara. Il padrino, che ancora non era stato aggredito dalla malattia e già proclamava di essere capro espiatorio, usava contro la Chiesa parole di fuoco: “Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato”. E ancora: “Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime. Non saranno questi a rifiutare le mie esequie… rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia”.
E con Dio, scriveva in un altro pizzino, aveva fatto pace. Lui, aggiungeva, “non mi ha scomunicato perché Dio”. Sarà la famiglia a curare, quando sarà, il trasferimento della salma a Castelvetrano. Il boss avrà un posto nella tomba di famiglia, accanto a quella del padre Francesco, morto da latitante nel 1998. Nella tomba porterà tutti i suoi ingombranti segreti: le stragi del 1992, gli attentati del 1993, l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia, l’unico delitto per il quale sostiene di non avere dato alcun ordine. Sul resto nessuna parola perché, come aveva annunciato nel giorno dell’arresto al procuratore Maurizio de Lucia, “con voi parlo ma non collaborerò mai”.