MILANO – La operatività del “sistema mafioso lombardo” sarebbe stata “decisa congiuntamente dalle tre componenti mafiose”, ossia ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra nel corso di 21 summit tra il marzo 2020 e il gennaio 2021. Emerge dalle imputazioni formulate dalla Dda di Milano e contenute nell’ordinanza di oltre 2mila pagine del gip di Milano Tommaso Perna, che ha bocciato, però, l’impianto accusatorio dell’alleanza tra mafie e le stesse accuse di associazione mafiosa, respingendo più di 140 richieste di arresto, su un totale di 154 indagati (uno, però, nel frattempo è morto).
Secondo le accuse, il patto tra mafie avrebbe avuto anche lo scopo, tra i tanti, di mantenere “contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale, bancario, in modo da ottenerne favori, notizie riservate, erogazioni di finanziamenti, rete di relazioni” e di condizionare “il libero esercizio di voto”. Agli atti intercettazioni come “abbiamo un bel pacchetto di voti, perché posso portare o senatori in Europa”. Parole di Filippo Crea, presunto ‘ndranghetista, indagato. Tra le decine di attività illecite che, secondo la Dda, il ‘sistema’ di mafie avrebbe portato avanti, c’è anche l’acquisizione di “appalti pubblici e privati, anche attraverso l’attivazione di canali istituzionali”.
Per la Dda milanese, i “vertici” delle tre mafie avrebbero operato “allo stesso livello” per mandare avanti il “sistema mafioso lombardo”, ossia la “confederazione”. Gli inquirenti, nella maxi imputazione per associazione mafiosa sull’alleanza (bocciata in toto dal gip), elencano nomi e famiglie delle tre mafie che avrebbero preso parte al patto: per Cosa nostra, tra le altre, la “famiglia Fidanzati”, il “mandamento di Trapani” con “al vertice Messina Denaro” e i Rinzivillo; per la ‘ndrangheta la “locale di Legnano-Lonate Pozzolo”, tra cui la ‘vecchia conoscenza’ della ‘ndrangheta lombarda Vincenzo Rispoli, la cosca Iamonte e Antonio Romeo; per la camorra il gruppo “Senese”, collegato a quello di Michele Senese, con base a Roma.
Tra gli oltre 150 indagati figura anche Paolo Aurelio Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro, che, secondo gli inquirenti, sarebbe stato il “punto di raccordo” tra il “sistema mafioso” in Lombardia, ossia il presunto accordo tra le tre mafie, e Matteo Messina Denaro, morto lo scorso settembre. Parrino per gli inquirenti avrebbe trasferito al boss “comunicazioni relative ad argomenti esiziali” mentre era latitante. Parrino, secondo la Dda milanese, sarebbe il “referente nell’area lombarda della provincia di Trapani, con specifico riferimento al mandamento di Castelvetrano”, riconducibile “all’ex latitante Messina Denaro”, e uno dei componenti “del sistema mafioso lombardo” oltre che già condannato in passato per associazione mafiosa.
Sarebbe stato Parrino, secondo le indagini dei carabinieri, “il punto di riferimento del mandamento di Castelvetrano nel Nord Italia”, mantenendo “i rapporti con i vertici di Cosa nostra, in particolare, con Messina Denaro”, latitante “sino al 16 gennaio 2023”. Avrebbe anche mantenuto e “curato i rapporti con la famiglia dell’ex latitante, vertice di Cosa nostra”, occupandosi di “qualsiasi necessità del nucleo familiare da soddisfare in Nord Italia, compreso un adeguato supporto logistico in caso di bisogno”.
Nella nuova inchiesta della Dda di Milano mancano, tra l’altro, le prove per “affermare” che Parrino “abbia proseguito, anche dopo la prima condanna del 1997, il suo rapporto di affiliazione al mandamento di Castelvetrano, né tantomeno all’associazione lombarda ipotizzata dalla Pubblica Accusa”, ossia quella confederazione di tre mafie. Il gip di Milano Tommaso Perna spiega perché Parrino non può essere arrestato, così come altri 142 indagati, come chiedeva, invece, la Dda milanese. Il giudice chiarisce che è sì vero che Parrino è un “esponente storico del clan” mafioso di Messina Denaro, “seppur da tempo trasferitosi” a vivere ad Abbiategrasso, nel Milanese, ma manca nell’inchiesta “la prova dell’esternazione nel territorio milanese della metodologia mafiosa” da parte sua.
Per il giudice, la Procura su Parrino, come in realtà su decine di altri indagati, ha portato solo “elementi” di tipo “suggestivo” per provare che il 76enne “abbia continuato a far parte del sodalizio” mafioso anche dopo la fine degli anni ’90. Manca, tra le altre cose, la prova “del contenuto degli incontri” tra Parrino e “Bellomo Girolamo”. Secondo l’accusa, Parrino sarebbe stato “intermediario per conto della famiglia trapanese dei Pace nella controversia con Amico Gioacchino”. E, nel novembre 2021, a Castelvetrano avrebbe incontrato anche le sorelle, la nipote e la madre dell’allora superlatitante Messina Denaro.
E ancora, sempre secondo la Dda, avrebbe intrattenuto “perduranti e confidenziali rapporti” con il sindaco di Abbiategrasso (Milano) Cesare Nai (non è indagato), che chiamava, scrive la Procura, “Cesarino”, e con altri esponenti del Consiglio comunale. Ma non c’è alcuna prova, secondo il gip, che Parrino abbia messo in pratica la “metodologia mafiosa” nei fatti elencati, definiti dallo stesso giudice anche come “scarsamente rilevanti”, e che addirittura lo avrebbe fatto come presunto appartenente della confederazione delle tre mafie.