Non parlava, ma lanciava messaggi. Matteo Messina Denaro, morto il mese scorso nel reparto detenuti del carcere de L’Aquila, non ha mai ammesso nulla. Neppure di essere affiliato a Cosa nostra: “Sono un criminale onesto, ma non sono mafioso” disse ai pm in un interrogatorio. Negava tutto, come nelle migliori tradizioni dei capimafia, ma tra le righe trovava il modo di far sapere il suo pensiero. Come quando, rispondendo al gip Alfredo Montalto il 16 febbraio scorso, parlò della strage dei Georgofili di Firenze del maggio 1993. Il verbale è ora depositato senza omissis.
“Tengo in chiaro che io non so niente di Firenze, io non so niente anche perché non c’è mai stata in una mia condanna nessun riscontro oggettivo. – disse al giudice -. Quello di Firenze, qualora fosse vero, non è che si volevano uccidere persone, anche perché ci sono collaboratori che dicono che la finalità non era uccidere delle persone. Solo che il problema è stato secondo me che sono andati con la ruspa cioè hanno ucciso la mosca con le cannonate. Perché si sa che se si mettono bombe, possono cadere degli innocenti”. Poi la dichiarazione: “La finalità era prendersela con lo Stato, con i beni dello Stato”. “Non è stato secondo me un errore – ha spiegato – è stato menefreghismo che è peggio perché l’errore può essere perdonato. Ma se io capisco e intuisco che là succedeva una strage ecco che una bomba là non sarebbe mai stata messa”. “Il problema – ha concluso – è che hanno usato gente che non vale niente”.
Una presa di distanza dalla strage? Una critica nemmeno tanto velata alle nuove leve di Cosa nostra? Un depistaggio? Difficile rispondere, ma la ‘tecnica’ usata dal boss era questa. E Messina Denaro l’ha usata per tutti gli argomenti più spinosi: come quello del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo due anni di prigionia per vendetta nei confronti del padre collaboratore di giustizia. Se non lui allora chi ordinò quell’atroce delitto? Davanti al gip Alfredo Montalto, che lo interrogava, il boss ha scaricato tutto su Giovanni Brusca. Fu lui, ha detto, a dare l’ordine.
Sempre al gip l’ex latitante disse di essere un contadino. “La mia residenza? Non ce l’ho, da quando il Comune mi ha cancellato sono un apolide”. E ancora: “Le mie condizioni economiche? Non mi manca nulla. Avevo beni patrimoniali ma me li avete tolti tutti. Se ancora ho qualcosa non lo dico, mica sono stupido”. In carcere da un mese dopo 30 anni di latitanza, ostentava sicurezza. “Voglio rispondere, ma le risponderò su tutto quello che compete la mia persona, sul resto non mi interessa rispondere”, anticipò al magistrato chiarendo che non intende accusare nessuno: dai capi di Cosa nostra, che disse di non conoscere, ai suoi gregari.