Quando un film come “Everything everywhere all at once” vince 7 oscar (compresi i 6 più importanti), come è successo nel 2023, le possibilità sono due: o in quell’annata la cinematografia mondiale si è presa una vacanza, ed era l’unico titolo uscito nelle sale del pianeta, oppure è proprio vero che le statuette losangeline non sono la bibbia. Chi ama davvero i film, da parecchio tempo dovrebbe essersi fatto l’idea che non è mica il caso di entusiasmarsi per un baraccone americanocentrico che va blandito per ottenere un riconoscimento e che si ferma solo sulla superficie.
Dunque non è esattamente una sorpresa che a spintonarsi per il premio, tra le terribili guance finte di Ryan Gosling e il solito presentatore comico che fuori dagli Stati Uniti non fa mai ridere, quest’anno ci siano stati solo due grandi film – Oppenheimer e Anatomia di una caduta – in mezzo a un solido contingente di sopravvalutati.
Uno era il nostro “Io capitano”, il tentativo da parte dell’antartico Garrone di sbrinarsi dopo una carriera di storie gelide (L’imbalsamatore, Primo amore, Gomorra, Il racconto dei racconti) o peggio ancora insignificanti (Reality). Il regista più distaccato d’Italia stavolta ce l’ha messa tutta per emozionare se stesso, ma se paragonata all’ignorato e magnifico Green border sui drammi migratori dell’Est Europa, la sua odissea di profughi non ti smuove le viscere. La nemesi ha voluto che a batterlo sia stato glacial Glazer, l’uomo che in “Under the skin” aveva denudato Scarlett Johansson per un tipico ruolo di sexy aliena ammazza-terrestri, e che adesso spopola con “La zona d’interesse”; al quale va riconosciuta una nuova idea olo-caustica, perché finora a nessuno era venuto in mente di mostrarci la quotidianità di un’allegra famiglia nazista confinante con Auschwitz, ma che con la sua ricercatissima freddezza (mai un primo piano) rimane un film senza cuore. Eppure proprio Glazer è stato l’unico ad attentare alle coronarie dello zio Sam con il suo mini sermone pacifista piazzato tra le mura (imbarazzate) del padrone di casa non certo più adatto.
Sacrilegio dei sacrilegi (altro che Garrone), a Scorsese nemmeno una patacca. Qualcuno deve essersi accorto, ammesso che sia arrivato alla fine delle tre ore e mezza di “Killers of the flower moon”, che il venerabile maestro è sì un punto di riferimento nella tecnica delle riprese, ma è un po’ meno venerabile quando non ha una grande sceneggiatura. Ovvero quasi sempre. La questione ha un suo peso anche per Povere creature: beati i visionari, perché l’immaginazione è un dono per pochi, e qui la creatività in campo estetico è sparata al massimo. Poi però in questo tripudio di consensi e di spettatori (soprattutto spettatrici) a cui la visione ha cambiato la vita, verrebbe da considerare che c’è bisogno anche di altro. Magari addirittura una storia più convincente, o dei dialoghi più significativi. Invece la sensazione è che sia uno di quei film piacioni ai quali la gente attribuisce significati e interpretazioni molto più profondi rispetto a quelli nella mente del regista. Ci sarebbe molto da discutere su questo prototipo di donna libera che si concede a bruti repellenti, ma per una volta gli oscar sembrano controfirmare un giudizio realistico: ti sei beccato tutti i premi per gli occhi (trucco, costumi, scenografia), caro Lanthimos, ma quelli importanti non ti riguardano.
Se ci si mettesse d’accordo sulla preminenza di una bella sceneggiatura rispetto a tutto il resto, è chiaro che una premiazione non potrebbe mai allontanarsi da Oppenheimer e Anatomia di una caduta. Il signor bomba è uno sforzo mastodontico: ovvero il più grande nerd nella storia del cinema cerca di raccontare i cervelli più complessi del secolo scorso in tre ore di dialoghi così vorticosi che nella versione in lingua originale i sottotitoli non riescono a stargli al passo. In questo formidabile raduno di cellule grigie qualunque spettatore al di sotto della qualifica di fisico nucleare arranca per almeno il 50% del film, anche perché quel buontempone di Nolan butta dentro decine di personaggi tutti con Qi non inferiore a 150, e ciò nonostante è un piacere andargli dietro: per la poderosa messa in scena ma anche per la consapevolezza di essere stati invitati dietro le quinte di un evento storico colossale.
Come diavolo faccia un nostro simile a concepire intrecci così complessi è una domanda che torna buona pure per Anatomia di una caduta, capolavoro di scrittura che per una volta mette tutti d’accordo. Un solo oscar, ma quello che vale di più, per la sceneggiatura originale. Poi conti le statuette di Oppenheimer, e sono 7 come quelle di “Everything everywhere all at once”, e ti coglie un disorientamento sul cosmo.
A voler restar male a tutti i costi per la mancata corrispondenza tra i nostri insindacabili gusti e quelli della fantomatica Academy, sarebbe stato anzichenò disdicevole se il premio per il miglior non protagonista fosse andato a un essere umano diverso da Robert Downey Junior. Possiamo dormire tranquilli, ma è ancora più rassicurante che sulla sponda femminile (chissà perché non può esserci un premio unico per uomini e donne) sia stata scelta Da’Vine Joy Randolph, talmente non protagonista di “The holdovers” – versione moscia dei film strepitosamente amari di Alexander Payne, su tutti Sideways – da non lasciare alcuna traccia. Misteri insondabili tanto quanto la candidatura abusiva tra i migliori film di “Past lives”, un onesto film sentimentale coreano. Ecco, quando vedi gli americani che si esaltano per così poco trovi la pace: il senso della vita non è in quelle buste.