Non ha colto di sorpresa la comunità di Hollywood l’annuncio del figlio Keifer della scomparsa a 88 anni di Donald Sutherland, perché da tempo la malattia l’aveva tenuto a letto a Miami, lontano dal suo Canada a cui aveva giurato eterna fedeltà fin da ragazzo diviso tra un futuro da ingegnere (aveva preso il diploma) e uno da attore. A quell’epoca – aveva 22 anni – scelse la seconda opzione e se ne partì per la londinese Accademia d’arte e recitazione e poi per una stagione teatrale in Scozia. Come tanti di quella generazione sperimenta la gavetta in televisione grazie a comparse e particine (per lo più da Bad Guy) alla Bbc e poi in quella fucina di cinema popolare e horror che fu la Hammer in cui signoreggiava Christopher Lee.
Ma la sua fortuna fu di avere un ruolo a fianco di Roger Moore nel seriale “Il Santo”. Perché il futuro 007 si convinse del talento di quello spilungone canadese e lo spinse a partecipare al casting di “Quella sporca dozzina” di Robert Aldrich. Il trionfale successo di quell’avventura di guerra aprì al giovane partner di Lee Marvin e Charles Bronson le porte di Hollywood nel 1967.
Nato il 17 luglio del 1935 nel distretto canadese di New Brunswick, cresciuto dai genitori di modeste possibilità tra la Nuova Scozia e Toronto, Donald McNichol Sutherland ha sangue scozzese, tedesco e inglese ed è forse per questo che in carriera trovò le migliori soddisfazioni nel cinema europeo anche se la gloria (e un Oscar onorario nel 2017) gli vennero oltre oceano. Questa duplicità professionale è confermata, davvero un caso fortuito, dal suo vero e proprio debutto nel cinema, ovvero “Il castello dei morti vivi” girato in Italia da un oscuro Lorenzo Sabbatini nel 1964 e firmato insieme al marchigiano Luciano Ricci.
Subito dopo la parentesi italiana e il successo americano, Donald Sutherland si ritrova al centro dello star system e può finalmente scegliere ruoli e caratteristiche che si addicono al suo stile recitativo in cui trionfano l’ironia, l’understatement, il passo felpato e una voce dai toni bassi e inconfondibili. Impegnato politicamente, legato alla sua seconda compagna Jane Fonda che divide con lui anche le attenzioni dell’Fbi che lo prende di mira come possibile sovversivo per le sue dichiarazioni contro la guerra in Vietnam, Donald Sutherland trova il suo perfetto pigmalione in Robert Altman. In “Mash” (1970) fa faville a fianco di Elliot Gould e poi la conferma come protagonista in “Una squillo per l’ispettore Klute” di Alan J. Pakula. Gli anni ’70 sono per lui quelli della consacrazione con “A Venezia un dicembre rosso smoking” di Nick Roeg, “Il giorno della locusta” di John Schlesinger, “Animal House” di John Landis e “Terrore dallo spazio profondo” di Phil Kauffman.
Ma è proprio l’Italia invece a dargli la vera misura della sua statura attoriale con due capolavori: il lunare Giacomo Casanova in cui si incarna per Federico Fellini e lo spietato Attila con cui Bernardo Bertolucci lo trasforma in un memorabile “Cattivo” in “Novecento”. Dagli anni ’80 in poi la sua presenza è garanzia di qualità e successo nei generi più diversi: spia tedesca in “La cruna dell’ago”, padre di famiglia in “Gente comune”, sergente inglese in “Revolution” di Hugh Hudson, parroco detective ne “I delitti del rosario”, enigmatico funzionario governativo in “JFK”, gelido uomo d’affari in “Rivelazioni”, fino allo spietato Presidente nella saga di “Hunger Games”.
Piena consapevolezza dello schermo, Donald si muove ogni volta da protagonista naturale anche solo per una breve apparizioni. Sutherland aveva il dominio assoluto della scena; non era bello ma di un fascino così seduttivo che apparve presto come un “New Lover”; non era aggraziato ma si muoveva con la leggerezza del ballerino, non era destinato ai ruoli da eroe e prim’attore ma anche e soprattutto da “cattivo” giganteggiava contro ogni altro presunto eroe. In più aveva il dono di una voce vellutata e baritonale che fino all’ultimo gli garantì anche la dimensione del grande narratore.
E’ sua infatti la voce che accompagnò le olimpiadi invernali di Halifax e il Canada gli volle rendere l’ultimo omaggio un anno fa stampando un francobollo con la sua effige. Colto, appassionato d’arte, innamorato dell’Italia, Donald Sutherland è la perfetta sintesi di un Paese, il Canada, che si nutre di una duplice cultura da sempre: quella europea nel cuore, quella americana nella superficie. Lui sapeva coniugare da par suo questa meravigliosa dualità.