Di tubercolosi (Tbc) in Italia si parla solo in occasione di nuovi focolai. A partire dagli anni Cinquanta, infatti, l’incidenza di nuovi casi di Tbc è notevolmente diminuita in Italia come in molti Paesi dell’Europa occidentale. Di conseguenza, l’attenzione al problema, il grado di sospetto diagnostico e le competenze specialistiche sono divenute meno diffuse. Tuttavia nel nostro Paese si verificano ancora più di 4 mila nuovi casi di Tbc all’anno: un dato che, se da una parte classifica l’Italia tra i Paesi a bassa endemia, dall’altra continua a rappresentare una realtà sanitaria che richiede formazione degli operatori, strategie di prevenzione e attività di controllo. Considerato che dai dati di sorveglianza si rileva che l’incidenza della Tbc nell’ultimo decennio si è mantenuta costantemente sotto i 10 casi per 100.000 abitanti, non è il caso di abbassare la guardia e al Policlinico di Palermo è stata sviluppata una nuova modalità terapeutica che potrebbe rivoluzionare la cura dei casi gravi e resistenti alle terapie attuali.
Tutto questo è frutto del lavoro di un gruppo di ricerca italo-inglese coordinato dall’Università di Oxford e di cui fa parte il team del Cladibior (Central Laboratory of Advanced Diagnosis and Biomedical Research) del Policlinico del capoluogo diretto da Francesco Dieli e composto da Nadia Caccamo e dai ricercatori Marco Pio La Manna e Giusto Davide Badami. In particolare è stata testata la capacità di un anticorpo, Bispecific T cell engager (BiTE) prodotto dall’Università di Oxford, nell’attivare tutti i linfociti T in grado di eliminare le cellule infettate dal Mycobacterium tuberculosis, l’agente eziologico della tubercolosi. I BiTEs, che in inglese significa “morso”, sono anticorpi bi-specifici più recenti e rappresentano la più importante nuova frontiera terapeutica, soprattutto in oncoematologia.
E’ stato avviato un programma di eradicazione della malattia sviluppato dall’Oms. Circa 2 miliardi di persone (il 25% della popolazione mondiale) risulta infettata in modo latente dal Mycobacterium tuberculosis, ma con un rischio di riattivazione della malattia stimato nel 10% durante la vita di un individuo e che tuttavia aumenta di 200 volte nei soggetti immunodepressi, coinfettati dal virus Hiv o sottoposti a terapie con farmaci biologici. “In questo contesto – spiega Dieli – diventa necessario lo sviluppo di nuove terapie volte a potenziare la risposta immunitaria dell’ospite nei confronti del patogeno, le cosiddette host-directed therapies”.
L’importanza e l’originalità dello studio italo-inglese consiste nell’avere sviluppato e utilizzato un BiTE di nuova generazione, chiamato ImmTAC, che permette il riconoscimento di antigeni estranei presenti all’interno delle cellule infettate. Questa tecnologia è già stata utilizzata per lo sviluppo di altre molecole, attualmente in fase di trials clinici per alcune tipologie di cancro e per alcune malattie infettive. “I risultati ottenuti e pubblicati su Pnas – conclude Dieli – aprono la strada per utilizzare ImmTAC nei trials clinici su pazienti affetti da tubercolosi, al fine di ridurre i tempi della terapia antitubercolare”.