MESSINA – È stata emessa ieri sera nell’aula bunker del carcere messinese di Gazzi la sentenza del maxiprocesso d’appello sulla mafia dei pascoli nei Nebrodi. L’inchiesta, scaturita anche dalle denunce dell’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, riguarda i clan tortoriciani dei Batanesi e dei Bontempo Scavo che per decenni avrebbero organizzato truffe agricole all’Unione europea e all’Agea drenando milioni di euro di fondi pubblici. Sono complessivamente 65 le condanne, secondo quanto ricostruisce oggi la Gazzetta del Sud, con una sola conferma integrale della decisione di primo grado per Gino Calcò Labruzzo; per gli altri 64 imputati numerose riduzioni di pena, anche molto alte; 18 assoluzioni totali e 6 prescrizioni totali oltre a una lunga lista di assoluzioni e prescrizioni parziali.
Nei confronti di altri 6 imputati è stato rigettato l’appello del pm, quindi vengono confermate le assoluzioni del primo grado. I giudici d’appello hanno inoltre ribadito, come era successo in primo grado, l’accusa di associazione per delinquere semplice nei confronti dei presunti esponenti del gruppo Faranda-Crascì ritenuto dalla Dda vicino ai Bontempo Scavo. Mentre per il gruppo dei Batanesi è stata confermata sostanzialmente la strutturazione mafiosa. La pena più alta è stata inflitta a Sebastiano Bontempo (20 anni e 6 mesi), a Salvatore Aurelio Faranda è stata ridotta da 30 a 20 anni. Per l’ex sindaco di Tortorici Emanuele Galati Sardo condanna ridotta da 6 anni e 2 mesi a 3 anni e un mese, per una serie di prescrizioni, ma nei suoi confronti è stato parzialmente accolto l’appello del pm per altri due capi d’imputazione contestati.
“Abbiamo colpito con un’azione senza precedenti la mafia dei terreni, ricca, potente e violenta, ed è per questo che quella notte volevano fermarmi – commenta l’europarlamentare del M5S, Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco dei Nebrodi -. Volevano bloccare l’idea di una legge nazionale e dunque tutto quello che sta accadendo oggi. Le condanne in appello e la tenuta dell’impianto accusatorio sono la conferma del buon lavoro svolto da magistratura e forze dell’ordine”.
“Mi hanno tolto tutto: libertà, serenità, mi hanno costretto a una vita complicata costringendo la mia famiglia a vivere in una casa blindata e presidiata dall’Esercito. Due cose però non sono riusciti a togliermi: la vita e la dignità – aggiunge – e grazie a quest’ultima che proprio con dignità e onore porterò avanti il mio mandato in Parlamento europeo difendendo e migliorando le norme antimafia per le quali valorosi servitori delle Stato hanno perso la vita”.
Il maxiprocesso nasce dall’operazione del 15 gennaio 2020 denominata ‘Nebrodi’ con 94 arresti e il sequestro di 151 aziende agricole per mafia. Più di mille uomini della guardia di finanza di Messina e dei carabinieri del Ros assicurarono alla giustizia numerosi componenti di famiglie mafiose contestando loro reati che ruotano attorno al lucroso affare dei fondi europei per l’agricoltura in mano alle mafie combattuto con forza con il cosiddetto ‘Protocollo Antoci’. Così scrivevano magistrati nell’ordinanza: “La mafia che ha scoperto che soldi pubblici e finanziamenti costituiscono l’odierno tesoro e come siano diminuiti i rischi pur se i metodi restano criminali”.
Un meccanismo interrotto proprio da quel protocollo che Antoci ha fortemente voluto insieme al prefetto di Messina Stefano Trotta e che oggi continua a essere applicato in tutta Italia. Quello strumento, recepito nei tre cardini del Nuovo codice antimafia e votato in Parlamento il 27 settembre 2015, ha posto le basi per una normativa che consente a magistratura e forze dell’ordine di porre argine a una vicenda che durava da tanti anni. Di fatto, tentano di aggirarla e vengono scoperti. Antoci ha rischiato la vita in quel tragico attentato mafioso dal quale si è salvato grazie all’auto blindata e ai valorosi uomini della sua scorta della polizia.